“Stacanovismo” è sinonimo di Simona Binni
Leggo che sei laureata in psicologia dello sviluppo evolutivo e vorrei iniziare questa intervista con una domanda che sia attinente ai tuoi studi: sceglieresti Charmander, Squirtle o Bulbasaur?
La prima!
A parte gli scherzi, non sei la prima fumettista che intervisto e che abbia scelto di seguire un percorso lavorativo “differente” da quello intrapreso con gli studi. Qual è la tua storia? Cosa ti ha spinta a percorrere una strada, rispetto all’altra?
Era il mio sogno. Già da bambina disegnavo le mie storie a fumetti, non strutturate benissimo ovviamente, e adoravo tantissimo farlo. In età adolescenziale, però, lasciai perdere quella strada e iniziai a fare tutt’altro nella vita, un po’ spinta dai miei genitori, un po’ perché non esistevano ancora le scuole di fumetto.
Poi un giorno, arrivata ormai a trent’anni, ho deciso che volevo regalarmi un corso. Così, per passione. Man mano che lo frequentavo, ho scoperto che era una cosa che mi piaceva da morire e una volta terminati gli studi di fumetto – sostenuti in modo intensivo – alla fine mi sono presentata a un editore. E questo è stato il mio percorso.
Da “Amina e il vulcano” a “La memoria delle tartarughe marine”, ho potuto constatare un’evoluzione lampante, ma soprattutto sviluppatasi in pochissimo tempo. Con una media di un libro all’anno, da autrice completa, in aggiunta alle tue collaborazioni come illustratrice, hai tempo per dormire? Insomma, qual è il tuo segreto?
Ci sono due segreti. Il primo, che è la vera fortuna di questo mestiere, è avere un’idea: con quella tutto il resto è in discesa. La seconda è programmare il proprio lavoro: io so che tutti i giorni devo aver sceneggiato, disegnato e colorato una tavola, quindi la sera mi avvantaggio gli storyboard, la mattina dopo lavoro su quelli, poi mi fermo per pranzo, vado in palestra e dopo torno a lavorare.
Alla luce di “Stagioni”, con Emergency, dopo aver tratto i temi homeless e immigrazione, rispettivamente in “Silverwood Lake” e ne “La memoria delle tartarughe marine”, quanto è importante per te sensibilizzare i tuoi lettori riguardo il sociale?
Tanto, ed è una cosa che ho scoperto proprio facendo questi libri. Rimanendo tanto in casa a lavorare, a un certo punto rischi un po’ di perdere il contatto con la realtà e invece credo che sia importante per gli autori ricordarsi sempre ciò che accade al di là della nostra fantasia e riagganciarsi al mondo esterno.
Con le tartarughe ho pensato di inserire la mia idea, quella della storia di due fratelli, in un contesto preciso. Ed è così che ho creato questa cornice: per ricordarmi e ricordarci quel che stiamo vivendo in questo momento storico.
Il progetto con Emergency, invece, è stata un’esperienza molto forte a livello emotivo e artistico: sceneggiare una storia vera, quella di un chirurgo che lavora sul campo, è una cosa che ti cambia realmente.
Parliamo de “La memoria delle tartarughe marine”. Quanto studio c’è dietro?
Tanto, tanto, tanto. Io comincio a studiare quando mi viene l’idea, poi inizio a raccogliere tutto il materiale che mi serve, purché inerente alla mia storia: film, letture, internet, etc.etc. Questo metodo lo adotto anche in corso d’opera, quando magari scrivendo i dialoghi mi rendo conto che non ne so molto di ciò di cui sto parlando, e quindi torno a documentarmi.
Hai incontrato difficoltà in quest’ultimo lavoro?
Sempre. In tutto quello che faccio trovo delle difficoltà, ma quando ciò accade capisco che devo fare un salto e quindi, come si dice a Roma, “mi metto di tigna” e ci provo.
Cosa c’è di tuo in questa storia?
In tutte le storie che si scrivono c’è del proprio. È chiaro che non sono accadimenti che sono necessariamente capitati a te in prima persona, però sono cose che se hai un certo tipo di sensibilità filtri a modo tuo: che sia un racconto udito da terzi o qualcosa che tu stesso osservi, passa attraverso le tue corde, assimili e poi restituisci secondo quel che tu sei.
Ho appurato che la tua colorazione digitale è contraddistinta da nuances flat e desaturate, molto oniriche. Quali sono le tue tecniche preferite?
Io non avrei mai voluto colorare, nella vita. I miei primi due libri non sono colorati da me e io neanche ho mai colorato, prima. Poi però il problema è sorto quando, nel secondo libro, ho cominciato a dare delle indicazioni di colore e mi sono resa conto che, per quanto fossi supportata da una colorista bravissima, ella non riusciva mai a rispecchiare quello che io sentivo, perché avevamo interpretazioni differenti. E quindi tutto è nato da qua.
Ho imparato a colorare con Silverwood Lake, da autodidatta, in digitale. Ho pensato: “Male che vada sarà colpa mia. Al contrario, sarà un mio successo”.
Chiudiamo l’intervista con la nostra domanda di rito: puoi raccontarci un aneddoto divertente, legato al tuo lavoro?
Ne ho due.
La prima volta che misi piede nella scuola di fumetto mi ci recai per puro piacere personale. Il professore mi fece fare il giro della scuola e poi mi disse: “Ricordati sempre che alla fine ce la fa uno su mille, quindi falla con molto relax”. Questa cosa mi fece scattare il pensiero: “E se io fossi quell’una su mille?”.
Il secondo episodio fu quando cominciai a portare in giro i book e una persona molto carina mi disse: “Vabbè, ma d’altronde tu sei una ragazza, magari potresti cominciare disegnando Thea Stilton”. E io pensai: “Io non voglio disegnà Thea Stilton, io voglio disegnà le mie cose”. E quella fu la seconda, grandissima, spinta.
Carmen Guasco ft. Simona Binni
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