A lezione PEGI 18 con Michele Monteleone
Michele Monteleone a primo acchito sembra un ragazzetto, di quelli sbarbatelli e ingenui, sapete. E invece dopo nemmeno cinque minuti d’intervista ho intravisto la visione sì giocosa, ma nitida, di questo sceneggiatore dal curriculum già d’effetto – tra John Doe, Battaglia, Dylan Dog, Orfani e il più recente Caput Mundi – e che abbiamo ripercorso insieme, presentandolo alla nutrita presenza di (aspiranti) fumettisti, concentratasi giovedì 28 nelle aule della Scuola Salernitana del Fumetto Comix Ars, per incontrarlo e assistere alla sua lezione. Michele Monteleone si muove molto, troppo. Scattargli una foto è stata davvero un’impresa. Eppure ciò che ha da dire è tanto, ma soprattutto sa farlo bene. E il fatto che parli con cadenza romana non influisce minimamente sul mio giudizio, è chiaro.
Ps. Il titolo ha ben ragione d’essere, quindi tenete questo articolo fuori dalla portata dei bambini!
Iniziamo subito con una domanda socio-culturale: credi nei valori della carbonara o nella compostezza della matriciana?
La compostezza dell’amatriciana, sono decisamente a favore del sugo.
In questi giorni ho letto “Caput Mundi – I mostri di Roma” e non ho potuto fare a meno di paragonare il registro utilizzato con opere fresche come “Orfani”. È indubbio che via sia una preferenza per l’espressività e l’azione, rispetto agli “spiegoni”, tipici della produzione nostrana. Credi che questa evoluzione interessi solo le nuove leve del fumetto, come te, o che sia un segnale di rinnovamento lento, ma generale, dell’editoria italiana?
È chiaro che il fumetto si stia muovendo verso una sintesi maggiore, soprattutto per quanto riguarda le informazioni superflue, che non sono più necessarie, essendo ormai il lettore smaliziato a certe cose. La reiterazione dello “spiegone” non funziona più bene anche perché già con le serie tv, per esempio, siamo stati abituati a una velocità decisamente più sostenuta, rispetto a quella di qualche tempo fa. Gli stessi telefilm si sono evoluti, quindi anche il fumetto dovrebbe adattarsi al linguaggio corrente.
Generalmente è risaputo che un disegnatore si alleni disegnando a più non posso. Come funziona per uno sceneggiatore?
Sicuramente bisogna leggere. Leggere tonnellate e tonnellate di fumetti. Anche i romanzi. Non capisco il perché, ma la maggior parte dei fumettisti legge solo fumetti e non ha mai aperto un libro. Guardare un sacco di film, perché fondamentalmente il mio lavoro è un po’ a metà tra quello del regista e quello dello sceneggiatore cinematografico. E ovviamente scrivere in qualunque forma possibile e immaginabile. Per esempio, il mio amico Giulio Gualtieri, che tra l’altro adesso è mio editor in Cosmo, aveva scritto dei pezzi per “Beccaccia che passione” e “Il Cotto“, ma non “Cotto e Mangiato” o roba del genere – si tratta proprio di una rivista sui pavimenti in cotto.
Quanto tempo dedichi alla lettura e alla visione di materiale e quali generi preferisci?
Per quanto riguardo il tempo, ti giuro che non lo so. Chi mi conosce sa bene che soffro di insonnia, quindi praticamente il 90% della notte guardo film o leggo. Considera che mi sono trasferito da poco a vivere con la mia ragazza e abbiamo iniziato ad avere questo problema: quando finisce un film faccio “Okkè, ne mettiamo un altro?” e lei fa “Ma è l’una di notte, domani dobbiamo svegliarci!“.
Per quanto riguarda il genere preferito, potrei fare il macho e dirti l’action, che effettivamente adoro; tra l’altro ne parleremo oggi, a lezione. Se però dovessi considerare qual è il genere che vedo di più… La commedia romantica. Guardo qualunque commedia romantica in commercio. Adoro le commedie. È un piccolo feticismo. Anche qui c’è un interessante aneddoto su Giulio: lui vede tutti i film italiani, cioè anche quelli orripilanti, che conosci perfettamente… Anche i cinepanettoni? TUTTI. Quindi, vedi, ognuno ha il proprio guilty pleasure cinematografico.
Ho scoperto che esistono vari tipi di approccio al lavoro da parte dello scrittore: c’è chi si pone degli obiettivi minimi di battute giornaliere, come Stephen King, chi si lascia trascinare dal mutabile flusso creativo e chi invece segue dei precisi orari d’ufficio. Tu a quali di queste categorie appartieni?
Nessuna. Io sono la categoria che, quando mancano ventiquattro ore alla consegna, inizia a lavorare.
Secondo alcuni studi antropologici, ogni artista tocca puntualmente un tema ricorrente, che sia un concetto, un colore o qualcosa di più materiale. Riconosci qualcosa del genere, nelle tue produzioni?
Guarda, fa riderissimo. Avevo iniziato a lavorare autonomamente a “Caput Mundi”, però poi gli impegni di “Orfani” mi hanno reso assolutamente impossibile finire da solo. Quindi ho preso a bordo Dario Sicchio, al quale avevo fatto da editor in un’autoproduzione con Verticomics e di cui mi fidavo fortemente. Quando abbiamo iniziato a lavorare, lui è venuto a casa mia e s’è preso un po’ di fumetti miei, anche le autoproduzioni, irreperibili. Finito poi di controllare tutto il lettering di “Caput Mundi”, a cose fatte insomma, mi fa: “Ma la sai una cosa? C’è una cosa – anzi due cose – che ricorrono in ogni tuo fumetto e me sto a inizia’ a preoccupa’.” – “Che, Dario?” – “I pom***i e le battute sulle madri. Se ci fosse un Oscar, sulle battute sulle madri, probabilmente l’avresti già vinto a tavolino.” Quindi non lo so, pare che la mia poetica sia basata su pom***i e battute sulle madri.
Come gestisci il rapporto col disegnatore?
Sono uno di quelli che diventa amico del disegnatore. Il 90% di loro sono nottambuli, perché devono lavorare fino a notte fonda, per riuscire a stare dentro le scadenze – non come noi sceneggiatori fannulloni – e visto che volente o nolente resto sveglio, generalmente chiacchieriamo a lungo. Di solito sono davvero (o almeno spero di esserlo) molto aperto nel rapporto mutuo che c’è tra il disegnatore e lo sceneggiatore, nel senso che mi faccio aiutare da lui. Se mi propone delle idee, non sono uno di quelli che risponde “Nella sceneggiatura non è scritto questo. Muori!“.
Non sei Alan Moore…
No, decisamente no.
Del tipo non scrivi ogni virgola, lasci più carta bianca?
Sì, sì, decisamente sì. Tuttavia sono un po’ fissato con il ritmo, soprattutto per quanto riguarda le scene più concitate: se io scrivo che c’è un dettaglio e tu invece mi fai un campo lungo, non va bene, perché c’è un tempo di lettura per il primo e un altro per il secondo. Quindi tengo ad amministrare il ritmo di narrazione sulla pagina, ma per il resto davvero sono molto molto tranquillo.
Puoi rivelarci un tuo obiettivo a breve e a lungo termine?
Sai con ‘sta cosa degli obiettivi non sono mai stato bravo. Era tipo la domanda che ti facevano alla fine del liceo e io ricordo che all’epoca volevo fare l’archeologo, ma mi so segnato a Scienze Politiche, poi mi sono iscritto a Lettere, sono passato a Storia e poi sono finito a fare il fumettista. Quindi come vedi non sono bravo negli obiettivi.
Sul breve termine, in ambito fumettistico, voglio finire “Orfani”. E c’è un libro che sta uscendo per la BAO Publishing. Perché si chiamano libri, quelli per la libreria, a quanto mi hanno detto. Quindi mi adeguo. Comunque è un fumetto, ti rivelerò questo segreto. Dicevamo, sta uscendo questo libro per BAO e visto che ci abbiamo messo molto impegno, per la veste particolare con la quale abbiamo deciso di promuoverlo, spero che vada molto molto bene e che diventi multimiliardario grazie a questa cosa, così posso smettere finalmente di fare fumetti.
Però ho visto che fai molto editing e sei anche autore. Ti piace?
L’editing non è la strada che vorrei perseguire. Ciò che vorrei fare adesso è avere una serie mia.
Chiudiamo il tuo supplizio con la solita domanda di rito finale… E no, non ha a che fare con la porchetta. Ci racconti un aneddoto divertente, legato al tuo lavoro?
La prima volta che siamo andati a Lucca con un progetto, i nostri disegnatori si sono presentati con le tende e hanno campeggiato con una cinquantina di centimetri di pioggia al giorno. Arrivarono al portfolio review completamente zuppi, sporchi e puzzolenti, perché giustamente se dormi sulle mura di Lucca a novembre non sei proprio un bel vedere. Dopo di questo abbiamo scoperto che avevano deciso autonomamente di cambiare il nome degli autori con dei nomi d’arte. Però sai che ho appena fatto una di quelle cose che fanno gli scrittori? Mo’ mi autodenuncio. Non è un aneddoto mio, me l’hanno raccontato. Conosco così bene le persone che me lo hanno riferito, che l’ho fatto mio. L’ho usato spesso per raccontare cose strane… A me ne so’ successe, ma questa è più bella delle mie!
Carmen Guasco ft. Michele Monteleone
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