Immergendosi con Kalina nell’oceano di Sofia
Come di consueto vorrei iniziare questa intervista puntando direttamente al cuore dell’artista: l’avocado lo preferisci cotto o crudo?
Crudo. Sempre.
Sei nata e cresciuta a Sofia, Bulgaria, poi hai continuato la tua formazione artistica a Bologna e adesso prosegui i tuoi studi in Germania: quanto è importante, per la tua arte, poter assorbire da così tante culture differenti?
Penso sia molto importante viaggiare, specialmente per un artista. Quando ti sposti, cambi prospettiva e conseguentemente, riesci a capire tante cose su di te e la società che ti ha formato. Più ti allontani, più diventi imprevedibile, come direbbe Saul Steinberg. Per me, questo vale tantissimo: per esempio, se cinque anni fa non mi fossi trasferita in Italia, ora non farei fumetti e questa intervista non sarebbe mai stata realizzata! Da noi, in Bulgaria, i fumetti sono praticamente assenti: chi avrebbe mai detto che un giorno avrei praticato un mestiere che nella mia nazione non esiste? La vita è strana!
Durante la presentazione di “Sofia dell’oceano” (Tunuè) alla Scuola Salernitana del Fumetto Comix Ars, abbiamo avuto modo di parlare del tuo rapporto con Marco Nucci, il tuo sceneggiatore. Come è stato lavorare con lui?
Il nostro rapporto sceneggiatore/illustratore non è stato dei più tradizionali. Di solito lo scrittore invia la sceneggiatura completa e il disegnatore si mette a lavoro. Marco, invece, scriveva Sofia man mano che io facevo le tavole, aspettandomi sempre un capitolo più avanti. Inizialmente, fui io a chiedergli di operare in questo modo: lui si adeguò volentieri, visto che gli interessava osservare l’evoluzione grafica della storia, che spesso ha influenzato il suo modo di sceneggiare, arrivando addirittura ad apportare alcuni cambi sostanziali al soggetto iniziale. Spesso lavoravamo letteralmente spalla a spalla e ci correggevamo a vicenda. I nostri discorsi, anche quando non stavamo lavorando, giravano sempre attorno al mondo di Sofia. Diciamo che, come l’equipaggio del Palla 6, anche noi ci siamo un po’ ammalati: ci è preso il Morbo Oceanico! Una malattia molto grave, ma parimenti divertente!
In “Sofia dell’oceano” possiamo riconoscere elementi vittoriani, steampunk e narrativi (i mostri vedo/non vedo lovercraftiani, Collodi, Carroll e Stevenson): avevate già intenzione di costruirlo in questo modo o questa combinazione è venuta alla luce man mano che lavoravate al libro?
Fin dall’inizio, dal punto di vista visivo, le idee di Marco erano ben chiare. Come prima cosa, mi ha suggerito di osservare le illustrazioni di Edward Gorey, di leggere i romanzi di Roald Dahl e di guardare i film di Miyazaki. Per quanto molto diverse l’una dall’altra, queste fonti mi hanno ispirato molto. Il mondo di Sofia è il punto di equilibrio tra una serie di letture e visioni, il mio immaginario e quello di Marco. Ci siamo trovati a metà strada, dentro un sottomarino. Anzi, una Turbonave Subacquea! Non dite al capitano che l’ho chiamata sottomarino, che si offende!
Credo che chiunque abbia letto “Sofia dell’oceano” abbia una quantità di domande non indifferenti – possiamo quindi sperare di leggere nuove avventure di Sofia, del Capitano Occhioblu e della sua ciurma?
Per adesso, non posso rispondere. È ancora è troppo presto. Certo, a noi piacerebbe continuare a raccontare quel mondo: come detto, ci siamo affezionati e i personaggi hanno ancora molto da dare e dire. Tuttavia, per ora il giudizio rimane sospeso.
In quali difficoltà ti sei imbattuta, lavorando a “Sofia dell’oceano”?
Tutte! Ogni capitolo è stato una sfida. Il novanta per cento delle cose che troverete nel volume non le avevo mai disegnate in vita mia. Personaggi animaleschi, draghi, sottomarini, battaglie: ho disegnato di tutto e ogni capitolo, in fase di studio, mi causava un’angoscia tremenda. C’era sempre uno scenario nuovo, un elemento inusuale, un personaggio che entrava in scena e faceva cose pazzesche. Prima di iniziare mi procuravo sempre un sacco di cartelle di documentazione, poi respiravo per un paio d’ore e mi mettevo all’opera. Mi ritengo soddisfatta del lavoro svolto, soprattutto perché mi ha tolto la paura di uscire dalla mia safety zone iconografica. D’altronde, dopo che hai disegnato un’isola/turbonave con a bordo delle galline che indossano un berretto con su scritto Gruppo Oklahoma, cosa può spaventarti?
Il tuo stile è a dir poco poetico e suggestivo – quanto hai dovuto lavorare per arrivarci? E quali consigli daresti a quegli studenti che ne rincorrono uno che sia personale?
Dello stile se ne parla molto, ma sono convinta che, per ogni disegnatore, non sia una cosa che si può ottenere con lo studio. O, almeno, non solo. Lo stile è già dentro di noi, è il nostro modo di vedere il mondo: un filtro, che il disegnatore deve trovare e imparare a usare. Più fai e guardi le cose che ami, più il tuo modo di fare diventa personale. L’unico consiglio che posso dare è: disegnate e scrivete solo storie che vi piacciono TANTO.
Per quanto mi riguarda, non penso di aver mai detto “adesso userò questo stile qua”, come se ci fosse un catalogo nel quale poter scegliere. Non mi sono mai posta il problema. Penso di disegnare sempre nella stessa maniera, ma poi mi rendo conto che non è vero, perché, come ogni altra cosa della vita, anche il segno cambia, con i gusti, l’esperienza e il contesto.
Lavorare in analogico – e soprattutto con matita e gomma come te – non è da tutti, soprattutto in un’epoca dove il digitale ottiene maggiori riscontri a causa della sua praticità. Come gestisci il tuo lavoro, per rientrare nei tempi?
Trovo che il lavoro digitale spesso perda di freschezza e non mi attira tanto, se non per la colorazione .Comunque, in generale penso di essere abbastanza veloce a eseguire una tavola, quindi non mi preoccupo molto dalle tempistiche. Oddio, a dir la verità sì, mi preoccupo eccome! Ma questa è la mia indole, visto che mi preoccupo un po’ di tutto.
Sei attratta dalla possibilità di lavorare a un progetto da autrice completa?
Sì, mi piacerebbe molto, anche se per adesso non mi sento ancora abbastanza matura, come scrittrice, per lanciarmi in un progetto lungo in solitaria.
Secondo alcuni studi antropologici, l’intera produzione di un artista è accomunata da un filo conduttore – che sia esso astratto o meno, riconosci il tuo?
Credo sia difficile riconoscere il filo nascosto del proprio lavoro. Quello che ho sentito spesso dire dei miei disegni è che sono molto malinconici e poetici. Sono sentimenti che non ho mai ricercato a livello grafico: riconosco però che facciano parte del mio carattere, e purtroppo, volente o nolente, finiscono per affacciarsi anche sul foglio.
Siamo giunte alla fine e quindi alla domanda più “pettegola” di tutte: ci racconteresti un aneddoto divertente, legato al tuo lavoro?
Mmm… La prima volta che ci siamo incontrati con Marco. Facevo una mostra con Brace, il mio collettivo, presso un centro yoga. L’aperitivo era molto salutista: cibo esclusivamente vegan, no alcol e no sigarette. Non so per quale ragione, Marco è intervenuto all’evento, ma con tutt’altro spirito: lui si era preparato per una serata movimentata. Aveva con sé una bottiglia di vodka, che usava per allungare i succhi offerti. Era proprio fuori luogo! All’improvviso, aggirandosi per la mostra come un marinaio ubriaco, mi ha chiesto di fare una storia insieme.
“Che personaggio strano”, ho pensato, “meglio dargli retta, così se ne va!”. Ha funzionato, perché poco dopo se n’è andato, con mio enorme sollievo. Poi però siamo finiti veramente a fare un libro insieme, e abbiamo bevuto anche qualche vodka. Lo ripeto, la vita è strana!
Carmen Guasco ft. Kalina Hristova Muhova
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