A tu per tu con i Demoni di Mattia Iacono
Iniziamo subito con una domanda attinente alla colorazione: preferisci smacchiare i tuoi vestiti dal sugo o dal vino?
Ho la lavatrice rotta da un mese e vado in lavanderia.
Come mai hai deciso di iscriverti a una Scuola del Fumetto?
Ho da sempre la passione per il disegno, da quando sono piccolo. Quando ho finito il liceo ho dunque deciso di provare a intraprendere questa strada, ma inizialmente volevo fare l’illustratore. Mi sono avvicinato a questo mestiere perché provo tantissima stima per Gabriele Dell’Otto e credo che lui non mi abbia denunciato per stalking solo perché è molto gentile: lo seguivo a qualsiasi fiera e quando scoprii dove fosse il suo studio presi ad andare lì direttamente, per fargli vedere i miei disegni. Siamo diventati amici, fortunatamente.
Volevo fare le copertine, come lui. Quindi ho disegnato per anni supereroi incredibilmente muscolosi, ma poco dinamici, perché contraddistinti da un’anatomia che non mi apparteneva. Fu proprio Dell’Otto, alla fine di quei tre anni, a scovare nel mio book – pieno zeppo di supereroi – i disegni dallo stile simile a quello mio attuale e a dirmi che funzionavano meglio.
Ho letto che stai lavorando al tuo terzo libro per la Tunué e che hai da poco pubblicato la tua prima collaborazione con la Bug’s Comics e questo, in aggiunta al tuo lavoro da colorista e da illustratore, non può che sollevare un dubbio lecito: sei umano? Qual è il segreto della tua superproduttività?
Differenziare il lavoro. Il nostro mestiere sta mutando sempre di più dal canonico disegnare le tavole. Il mercato che si sta formando adesso in Italia non è più solo questo, ma si basa su un semplice concetto: quel che so fare, lo sfrutto al cento per cento.
Mi piacerebbe un giorno vivere solo di graphic novel, ma fino ad allora propongo le mie capacità lì dove c’è la possibilità di farlo, perciò oltre a quello mi occupo di colorazione, di piccole storie brevi e di storyboard cinematografici, così da creare uno stipendio che a fine mese mi permetta di vivere.
Quindi non vi scoraggiate se prima di fare il lavoro dei vostri sogni ne farete miliardi diversi. Certe volte lo odierete ma, finché rimarrà nell’ambito delle vostre capacità, è giusto che lo facciate. Perché è un’esperienza, un guadagno che sia, oltreché economico, anche di crescita e di visibilità (che sia una vera visibilità, ovviamente).
E ricordatevi sempre di confrontarvi con chi opera in questo mestiere da più anni di voi, se potete farlo.
Con Demone Dentro ti sei misurato per la prima volta a un’opera da autore completo. Quali sono le difficoltà che hai riscontrato in quel caso?
Essendo già allora membro del Baby Ruth Studio, che conta tra le sue fila professionisti di gran lunga più esperti di me, sono stato aiutato parecchio su come affrontare quel lavoro. È stato comunque difficile perché, quando sei alla tua prima pubblicazione, non t’importa di nulla – stai coronando il sogno di una vita – poi però lo si stampa e vedi tutti gli errori commessi. Quel che mi sento comunque di dire a tutti gli esordienti, nonostante ciò, è: buttatevi anche se non vi sentite pronti, perché se l’editore vi concede un’opportunità è perché vede in voi qualcosa di buono, anche se acerbo.
Parliamo di Macumba. Perché questo uso dei demoni, filo conduttore delle tue opere? Cosa te li ha fatti preferira, chessò, ai folletti?
Perché i folletti non so disegnarli (ride – in realtà ridiamo tutti).
Nel lavorare a Demone Dentro mi sono reso conto che non volevo raccontare la storia nel modo in cui avevo previsto e intanto continuavano a uscire dalle mie mani questi mostri, ed è così che ho deciso di utilizzarli. Per me quei demoni sono una rappresentazione semplice e colorata di tutte quelle paure che ognuno di noi ha e che vive e vede in modo soggettivo. Non sono mai particolarmente spaventosi, perché la logica che c’è dietro questi libri è che non devono spaventare il lettore, ma solo il protagonista.
Al di là dello sfondo sovrannaturale che hai conferito alle vicende, mi è piaciuto soprattutto perché hai avuto la capacità di raccontare un fenomeno dilagante della socierà contemporanea, la solitudine, senza spettacolizzarla troppo. Era proprio così che avevi previsto di raccontarla?
In questo caso Bellini la solitudine se l’è creata: non è il mondo che è stato cattivo con lui, ma l’opposto. La logica che sto cercando di seguire in questi miei tre libri è che sono le scelte che determinano una certa condizione, non il contrario. So cosa voglio raccontare e questi personaggi sono i mezzi tramite i quali voglio farlo.
Hai riscontrato delle difficoltà, teniche o emotive, durante la produzione di Macumba?
Sì, soprattutto tempistiche, perché volevo farlo uscire entro il 2017. Quindi il problema più grosso è che non ho potuto lavorare a mano come con Demone Dentro, ma ho dovuto fare tutto in digitale. Non esiste nulla di cartaceo, se non gli studi.
Cosa c’è di tuo in queste storie?
Che Bellini è pelato (ancora ride – ancora ridiamo tutti).
C’è sempre qualcosa di tuo nelle storie che racconti. Parlando di Macumba, Bellini è ipocondriaco cronico e io un po’ lo sono – non cronico, ipocondriaco, ovviamente.
Questa è una domanda infame, sai perché? In Demone dentro uno dei personaggi ha un’epifania dopo aver picchiato la sua compagna. Ebbene, a una fiera una ragazza mi chiese perché avessi trattato una tematica del genere e la cosa mi mise in seria difficoltà, perché io non ho mai picchiato una donna. Adesso, comunque, quella ragazza è la mia fidanzata.
A ogni modo è logico che un po’ del dolore che ognuno di noi si porta dentro alla fine venga fuori, anche se magari non direttamente.
Da colorista, qual è la tua tecnica preferita in assoluto? E perché?
Il colore è arrivato quasi per caso ma, dopo aver seguito il master in colorazione digitale con David Messina, ho scoperto di trovarmici molto a mio agio, quasi più del disegno.
Nel digitale mi piacciono le tinte piatte, come quelle che utilizzo per le mie storie, ma è logico che lavorando da colorista mi adatti all’autore con il quale sto operando, perché ognuno è diverso.
Per quanto riguarda l’analogico, preferisco l’acrilico. Lo utilizzo molto, soprattutto nelle commissioni private. Purtroppo non si può utilizzare per i fumetti, a causa dei tempi.
Cosa ne pensi della costante diatriba “Digitale vs. Analogico”?
Non si può rifiutare nessuno dei due, perché ognuno ha i proprio pregi e allo stesso tempo la commistione tra di loro rende possibili cose interessanti.
Come sei arrivato ad ottenere il tuo particolarissimo stile?
Dopo una ricerca per certi versi voluta e per altri involontaria ed è una cosa della quale vi renderete conto più avanti. Ho cercato di prendere il più possibile da tutto quello che mi circondava. Quello che tu chiami stile è frutto dell’esperienza e della ricerca di un segno.
Ma attenzione: affannarsi in questa ricerca può distruggerti. Finché non acquisisci una tecnica tua, con la consapevolezza della struttura e del dinamismo, non ci arrivi – non bisogna avere fretta.
Quali fumetti ti hanno avvicinato al fumetto, da giovane?
Ho cominciato a leggere manga con Lupin, perché c’erano scene porno – ero piccolo! Non si vedeva nulla, ovviamente.
Da lì sono passato a Spider-man e Dylan Dog, poi però i supereroi li ho abbandonati e ho preferito le graphic novel.
Topolino ho iniziato a leggerlo dopo, a vent’anni.
E adesso? Cosa leggi?
Lupin (ride).
Dylan Dog sta sempre lì, ogni mese.
Uno degli ultimi che ho letto è The Rust Kingdom di Spugna.
Blast di Larcenet l’ho riletto ultimamente e consiglio a tutti di farlo.
La mia Bibbia, però, è Asterios Polyp di Mazzucchelli, che è la sua opera magna – ha impiegato otto anni per farlo. È un fumetto che tocca dei picchi incredibili, senza di lui certe cose oggi non sarebbero possibili.
Potresti raccontarci un aneddoto divertente legato al tuo lavoro?
Uno dei miei migliori amici presentava il suo primo spettacolo a teatro e non potevo non andare.
Quel lavoro l’avevo consegnato la mattina stessa ma, a mezz’ora dall’inizio dello spettacolo, sento il cellulare che vibra – capisco di che si tratta, mi fumo quattro sigarette e poi rispondo. Hanno chiesto delle modifiche.
Vado lo stesso a teatro, ma con un’angoscia dentro infinita. Appena finito lo spettacolo, sono tornato a casa a finire il lavoro.
Le modifiche? La pelle di uno dei personaggi non era della colorazione giusta: le reference che mi avevano dato erano sbagliate.
Carmen Guasco ft. Mattia Iacono
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